sabato 12 giugno 2010

L'intelligenza emotiva di Richard Boyatzis


Come scatenare il potere dell’intelligenza emotiva: imparare a dirigere
- I vantaggi del dirigere attraverso l’intelligenza emotiva (IE) e come questa promuove il successo
- Quali sono le cinque scoperte personali e come interagiscono nel processo di cambiamento intenzionale
- Ispirare e motivare gli altri: come massimizzare l’intelligenza emotiva del vostro team
- IE e il suo impatto sulla leadership: risonanza contro dissonanza
- Come lo stile del leader influenza il clima emotivo dell’organizzazione
- Perché i leader risonanti vincono: le quattro competenze chiave
- Come la leadership risonante contribuisce ad ottenere risultati migliori
CURRICULUM
Richard E. Boyatzis è uno dei massimi esperti globali di intelligenza e leadership emotiva. È Visiting Professor presso l’ESADE, Professore nei Dipartimenti di Comportamento Organizzativo e Psicologia alla Case Western Reserve University di Cleveland ed anche ex Professore nel suo Dipartimento di Comportamento Organizzativo ed ex Preside Associato per i Programmi di Formazione Dirigenziale presso la loro Scuola di Management di Weatherhead.
È autore, assieme a Daniel Goleman e ad Annie McKee, di Primal Leadership: Learning to Lead with Emotional Intelligence, un best seller internazionale pubblicato in 27 lingue. Ha scritto inoltre The Competent Manager: A Model for Effective Performance, Transforming Qualitative Information, ed è co-autore di Innovations in Professional Education. Il suo ultimo libro è Resonant Leadership: Renewing Yourself and Connecting with Others Through Mindfulness, Hope and Compassion (La leadership risonante. Intelligenza emotiva in azione).
Boyatzis ha una laurea (BS) in Aeronautica e Astronautica al MIT e un master (MA) e un dottorato (Ph.D.) in Psicologia Sociale ottenuti all’Università di Harvard. Boyatzis è membro fondatore del Consorzio di Ricerca sull’Intelligenza Emotiva nelle Organizzazioni.

giovedì 15 aprile 2010

Il potere curativo del dialogo


Buddismo e Società n.139 marzo aprile 2010
Speciale
Il potere curativo del dialogo
di Masao Yakota *

Illustrazione di Sandra Renzi

Prima di parlare del potere curativo del dialogo occorre definire attentamente il significato dei termini "curare" e "dialogo".
Per me curare, in questo contesto, significa guarire la ferita della separazione intrinseca nella società moderna. Siamo separati dalla natura e dagli animali. Siamo separati dalla società e dalle altre persone. Abbiamo interpretato male il reale significato del termine "individualismo" creando vite di isolamento.
Quando Daisaku Ikeda nel 1993 fondò il Centro Ricerche di Boston, tenne un discorso all'Università di Harvard in cui incoraggiava ciascuno a impegnarsi nel dialogo con mente aperta. Disse anche che il dialogo non ha una conclusione precostituita ricordando che l'essenza del dialogo è l'ascolto. Abbiamo sempre in mente questi punti quando conduciamo i nostri programmi al Centro.
Ovviamente il dialogo è più di una normale conversazione. Il suo scopo è capirsi - non solo condividere le rispettive visioni, cosa che ridurrebbe lo scambio a un semplice passaggio di informazioni. In un dialogo abbiamo la responsabilità di essere presenti e di arricchirci l'un l'altro. Dovremmo sempre ricordare che le parole "rispondere" e "responsabilità" derivano dallo stesso termine latino, respondere, che significa "promettere".
Ma questo genere di comunicazione non è naturale per gli esseri umani, che sono fondamentalmente egoisti ed egocentrici. Ciò rende particolarmente difficile dialogare, soprattutto in una cultura che parla e che insegna; la comunicazione è più facile in una cultura che ascolta e che impara. Quindi, per essere in grado di condurre un dialogo, dobbiamo a volte sviluppare le nostre capacità. La pazienza è una qualità necessaria, ma non è questo l'aspetto più difficile; ciò che può rivelarsi più arduo da sviluppare è un'attitudine appropriata: una profonda consapevolezza degli altri. È questa che ci permette di creare una vera armonia.
Nel suo libro intitolato Educating Moral People (L'educazione di persone morali, Teachers College Press, 2001), la filosofa americana Nel Noddings scrive: «Il dialogo è il fulcro concettuale del modello della cura». Questa affermazione indica la stretta relazione tra il dialogo e la capacità di prendersi cura, tra il dialogo e la nostra capacità di comprendere gli altri, che deriva principalmente dall'ascolto. Nel Noddings è profondamente consapevole che il dialogo tocca la sensibilità umana ed è altresì consapevole del potere che questa sensibilità ha di cicatrizzare le ferite.
Tuttavia l'ascolto e la cura non bastano. A volte diamo cibo o denaro a persone che soffrono. Ma questo non significa necessariamente che comprendiamo i sentimenti altrui. Significa piuttosto che capiamo i nostri sentimenti: io provo dispiacere, io mi prendo cura, io voglio fare qualcosa. Ma per poterci prendere realmente cura degli altri dobbiamo prima capire i loro sentimenti, in modo da poterli veramente comprendere e, vedendo loro, vedere noi stessi.
Dovremmo anche ascoltare la natura. Possiamo apprendere dalla natura in molti modi e, attraverso tale conoscenza, ritrovare forza vitale e armonia. Credo che questo senso di unione con la natura la cultura occidentale lo possa apprendere in senso più pieno dalla cultura orientale. È una consapevolezza che nasce da una forma di comunicazione con l'ambiente.
Anche il dialogo interiore è importante, perché a volte siamo separati da noi stessi. Quando ci concentriamo nell'autoriflessione pensiamo al nostro io passato, all'io presente e all'io futuro. Non dovremmo mai sentirci appagati dal nostro io che esiste in questo momento. Sarebbe meglio riflettere e chiederci: ciò che penso è giusto o posso trarre un significato più profondo dai miei pensieri? Sto progredendo? Il mio contributo è sufficiente?
È il confronto tra il nostro io reale e il nostro io ideale, piuttosto che il confronto con gli altri, che ci aiuta a crescere. Quando capiamo noi stessi siamo in una buona posizione per ascoltare e capire gli altri.
(tradotto da Petra Biral)

*Masao Yakota è presidente del Centro Ricerche per il XXI secolo di Boston (rinominato Centro Ikeda nel 2009)

lunedì 29 marzo 2010

L'essenziale è invisibile agli occhi



In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno", disse la volpe.

"Buon giorno", rispose gentilmente il principe, voltandosi, ma non vide nessuno.

"Sono qui", disse la voce, "sotto il melo.."

"Chi sei", domandò il piccolo principe. "Sei molto carino.."

"Sono una volpe", disse la volpe.

"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono così triste.."

"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata."

"Ah! scusa", fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:

"Che cosa vuol dire, 'addomesticare'?"

"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?"

"Cerco gli uomini", disse il piccolo principe. "Che cosa vuol dire 'addomesticare'?"

"Gli uomini", disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"

"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire 'addomesticare'?"

"È una cosa da molto dimenticata. vuol dire 'creare dei legami'.."

"Creare dei legami?"

"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo."

"Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C'è un fiore.. credo che mi abbia addomesticato.."

"È possibile", disse la volpe. "Capita di tutto, sulla Terra.."

"Oh! non è sulla Terra", disse il piccolo principe.

La volpe sembrò perplessa.

"Su un altro pianeta?"

"Sì."

"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
"No."

"Questo mi interessa! E delle galline?"

"No."

"Non c'è niente di perfetto", sospirò la volpe.

Ma la volpe ritornò alla sua idea:

"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane, e il grano, per me, è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano.."

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:

"Per favore.. addomesticami", disse.

"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose."

"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!"

"Che bisogna fare?", domandò il piccolo principe.

"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino.."

Il piccolo principe ritornò l'indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore.. Ci vogliono i riti."

"Che cos'è un rito?", disse il piccolo principe.

"Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza."

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina:

"Ah!", disse la volpe, "piangerò.."

"La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi.."

"È vero", disse la volpe.

"Ma piangerai!", disse il piccolo principe.

"È certo", disse la volpe.

"Ma allora che ci guadagni?"

"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano."

Poi soggiunse:

"Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto."

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
"Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico, ed ora è per me unica al mondo."

E le rose erano a disagio.

"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che io ho innaffiata. Perchè e lei che ho riparata col paravento. Perchè su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè è la mia rosa."

E ritornò dalla volpe.

"Addio", disse.

"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi."

"L'essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

"È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante."

"È il tempo che ho perduto per la mia rosa..", sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa.."

"Io sono responsabile della mia rosa..", ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

giovedì 18 marzo 2010

Senza paura - Buddismo e società n. 139 marzo-aprile 2010


Ogni persona è un universo. C'è di tutto: luci, maree, terremoti, sorrisi. C'è il miracolo degli squarci che s'aprono all'orizzonte, ci sono miliardi di orizzonti, la carezza degli incontri e grandini di rabbie. C'è oscurità e saggezza, amore e offesa, la fame e la grazia. C'è la mente che può danzare come le nuvole nel cielo o come fiamme, la forza di una convinzione e la fragilità dei corpi.
«In definitiva - scrive Nichiren - tutti i fenomeni, fino all'ultimo granello di polvere, sono contenuti nella nostra vita; le nove montagne e gli otto mari sono racchiusi nel nostro corpo; il sole, la luna e le miriadi di stelle si trovano nella nostra vita. Tuttavia noi siamo come il cieco che non vede le immagini riflesse in uno specchio o come il neonato che non teme l'acqua e il fuoco» (Gli inviati mongoli, RSND, 1, 561).
Anche se ce ne dimentichiamo, anche se non siamo capaci di vederlo sempre, ognuno di noi è degno di rispetto. Perché è un universo. Stessa origine, stessa pasta, stessa possibilità infinita.
I giorni però non sono sempre limpidi come un pensiero limpido o belli come parole belle. A volte capita che qualcuno ferisca la mia debolezza, la mia sacralità. Non so perché lo fa, ma accade. Accade di non sentirsi capiti, compresi, accettati, accade di vedere cose che non si vorrebbero vedere, ascoltare parole che non si vorrebbe ascoltare. Non so perché: perché pensi così male, o giudichi tanto, o mi colpisci nei punti che danno più dolore. Né perché ti ostini a non vedere la mia bellezza, la mia generosità, la mia ragione.
È un dolore preciso quello che acceca in ogni conflitto, litigio, alzata di voce. Lo conoscono tutti, perché in ogni universo c'è anche quel dolore, quella chiusura, quel taglio. Il male esiste, quello che mi provocano gli altri, quello che provoco io magari senza accorgermene, e spesso non si sa che farne. Diventa prepotentemente il centro delle cose. Riduce tutto, stelle, maree e sorrisi a un grumo incomposto che pesa. Pesa e fa male. Quando mio figlio mi scarica addosso la sua rabbia, quando una compagna di fede mi opprime di giudizi, quando una persona mi condanna, pensa che sto sbagliando e io no, non lo penso proprio. Quando vedo nell'altro solo la sua arroganza, il suo torto, le sue bugie e i suoi errori.
Si aprono ferite, incrinature di dubbi e difese. Separazioni. Ed è difficile, davvero difficile rispettare chi mi appare come una minaccia al bene, al senso di giustizia, al mio desiderio di essere felice.
Non ci sono ricette facili per risolvere i conflitti. Schemi comportamentali fissi da seguire, strategie infallibili, ragioni assolute. C'è un essere umano di fronte a me che forse soffre e che sicuramente mi fa soffrire. C'è una relazione da cui non traggo gioia, ma che mi provoca dolore. Che farne? Della guerra che si scatena nelle cellule e nei pensieri? Forse c'è da prendere in braccio quel male e provare a farne qualcosa, ma come? Come, se non so da dove proviene e perché, se non ci vedo bagliori, opportunità di progredire e creare qualcosa di bello, di vero, di sano?
Rispettare la vita di ogni persona è una pratica severa, cercare la sua Buddità, crederci con tutto il cuore. Esercitarsi a vedere la sua bellezza e nominarla. È una pratica che richiede fede. Fede che nella sua mente, nella sua vita, nella sua storia ci sia una luce potente, vasta, meravigliosa. Al di là dei limiti presenti, delle brutture che vedo, dei difetti o degli errori. Al di là dei miei dubbi sulle sue potenzialità. Se è vero che siamo stessa pasta, stessa origine, stessa possibilità infinita.
Ogni vita è perfetta e meravigliosa, ogni vita può trasformarsi e trasformare tutto in un istante, è questa la visione che da Shakyamuni, da Nichiren, da Toda ci arriva intatta e rivoluzionaria. E quando lo scordo, quando non riesco a vedere quella meraviglia, tutto diventa spoglio e privo di valore. Tutto viene limitato dalla mia mente che non ce la fa proprio a credere nella Buddità di chi mi sta di fronte. Non crede che quella persona potrà farcela, capire, amare. Mi concentro sulla sua stupidità, la sua collera, la sua violenza, enumero le sue oscurità senza capire l'utilità della sua presenza, mi riempio di tristezza, a volte di rassegnazione. Ed è questa cecità, io credo, a farci arrendevoli, meschini, a portarci a naufragare nel pessimismo che non vede possibilità di luce per questa persona, questo tempo, questo paese, questo mondo o questo governo. Che ci fa rimanere rintanati nel lamento, nel gusto di sentirci vittime magari intelligenti ma impotenti. Una cecità che rende impossibili conflitti sani, sane discussioni.
Se invece ci provo, se provo a pregare perché non so cos'altro fare, se riesco ad andare oltre la scorza dei sentimenti che mi annebbiano la vita di rancore, se buco quella coltre densa con la fede e la sento dentro la bellezza di mio figlio, della mia amica, di quella persona che non so perché mi provoca dolore, se mi concentro e imparo a percepire la forza e la preziosità della sua vita, allora, di solito, è la gioia ad accompagnarmi. È la serenità. E non si ferma alle circostanze, non se ne lascia influenzare. Ho fiducia che tutto possa cambiare. E faccio Daimoku per assaporare meglio quella fiducia, per liberare la mia vita dalla paura di quello che puoi fare o farmi, dalla facilità che ho di concentrarmi sulle mostruosità degli altri.

Non è tapparsi gli occhi

Non è un'illusione, non è tapparsi gli occhi di fronte ai pericoli o al male. Nichiren non lo fece. Sapeva quante persone avrebbe avuto contro se avesse osato dire l'infinita potenzialità della vita. Non assecondò il governo, il potere, non seguì il desiderio semplice ma pericoloso di essere amati e onorati a ogni costo. Scelse la via più difficile non smettendo mai di credere che prima o poi gli esseri umani avrebbero potuto trasformare ogni inferno in una pura terra tranquilla. Senza alzare nessuna arma se non quella della parola e del coraggio. Perché rispettare profondamente ogni singola vita non vuol dire evitare o temere i conflitti, ma agirli fino in fondo, con l'animo pulito. Senza tacere, sottostare a compromessi, senza evitare gli ostacoli o il giudizio degli altri, senza l'illusione o la pretesa che tutti ci vogliano bene. Rispettarti significa dire quello che penso con la fiducia che tu possa ascoltarmi, spostarti o spostarmi dalla fissità che ci fa ostili. Se non adesso, poi. Se non accade subito, accadrà. Significa non arrendersi. Non lasciare che questa fiducia si spenga. Che si spenga la speranza.
Il male - quello che mi fai, quello che incontro - se c'è, e c'è, posso guardarlo con chiarezza, toccarlo, abbracciarlo e andare oltre. Non lasciare che mi ricatti, mi fermi, tolga gioia o faccia terrore. Fa parte di me quel male, è nella mia vita come nella tua. Lo combatto non permettendo che divenga il centro delle mie giornate, che offuschi con vendette, parole cattive o cattive emozioni, la mia voglia di vivere e avere fiducia negli altri. Lo combatto cercando ogni istante di pulirmi dalla vigliaccheria che mi fa scappare, dall'illusione di essere superiore o inferiore, dall'arroganza di pensare che si giochi tutto sul misero piano del torto o della ragione. C'è sempre in gioco molto di più. Di fronte al male che fai o che sento, di fronte a ogni conflitto, c'è in gioco la mia fede che può crescere o impantanarsi e regredire, c'è in gioco la possibilità che ho di rivoluzionare me stessa e il mondo.

A volte il male può essere un maestro

I conflitti non sono di per sé un male, nulla lo è perché abbiamo sempre la possibilità di trasformare. Penso a Shakyamuni, contro cui Devadatta si rivoltò attentando più volte alla sua vita. A Nichiren perseguitato da Hei no Saemon, condannato a morte e osteggiato per tutta 'esistenza. A Makiguchi chiuso in carcere per salvaguardare la purezza degli insegnamenti buddisti nel Giappone del secolo scorso. Non si fecero fermare dalla paura, dal dubbio di non potercela fare, non permisero che gli accadimenti generassero nel loro cuore sentimenti ostili di odio, rabbia o rancore. Continuarono a lottare contro il male che si stava manifestando con la stessa compassione verso tutti gli esseri viventi, lo stesso amore. E a volte mi sembra di intuire che tanta della loro forza derivasse proprio dalla fiducia infinita che avevano nelle potenzialità dell'essere umano. Tanta di quella fiducia da esserne protetti, salvati.
«La condizione vitale raggiunta dal Budda è tale che nulla e nessuno può fargli del male», scrive Ikeda nel secondo volume de La saggezza del Sutra del Loto, dove parla a lungo di come Shakyamuni lottò con Devadatta, senza armi, offese o desiderio di supremazia, senza temerlo il male.
«Il potere della mistica Legge permette di cambiare i cattivi amici in buoni amici: l'ichinen della fede cambia le sofferenze in gioia, in buone occasioni per il nostro progresso. Nichiren Daishonin afferma: "Devadatta provò più di ogni altro la validità degli insegnamenti di Shakyamuni. Anche in questa epoca non sono gli amici, bensì i nemici quelli che aiutano una persona a progredire". Per conseguire la Buddità dobbiamo sconfiggere il nostro male interno e il mezzo pratico per farlo è combattere e sconfiggere il male esterno. Il male, visto come una funzione per purificare la nostra vita e conseguire la Buddità, può essere considerato un maestro» (La saggezza del Sutra del Loto, vol. 2, p. 162). È proprio perché Shakyamuni predice a Devadatta che raggiungerà l'Illuminazione che il Sutra del Loto può dirsi un insegnamento universale, perché è in grado di condurre tutti all'Illuminazione, compresi gli icchantika, comprese le persone malvagie se abbracciano la fede.
Anche una persona cattiva è un universo perfetto dove risiede la Buddità, anche tu che mi offendi o mi fai soffrire. Così come un Budda ha dentro di sé il male, lo stesso male che conosco e conosci tu. Perché è un essere umano. Semplicemente un meraviglioso essere umano che riesce a fare qualcosa di prezioso anche del male, a trasformarlo. Magari per scoprire il proprio coraggio, per fare i conti coi sentimenti negativi che nascono, per svelare il potere della fede e raccontare agli altri, a tutti gli altri, quanto la pratica del rispetto sia gioia che svela e ci svela la ricchezza della vita.

venerdì 12 marzo 2010

Una splendida poesia di Rosanna Pironti

Grazie Rosanna per questa meravigliosa poesia!
Le tue parole mi hanno particolarmente colpito perchè sono molto vicine alle mie vicende personali degli ultimi mesi!

domenica 31 gennaio 2010